«Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Genesi 2,7). Siamo all’apice dell’opera creativa di Dio. Due le azioni: prima di tutto, Dio plasma l’uomo con la polvere del suolo, poi soffia il suo alito di vita nelle narici di Adamo. L’episodio, dal punto di vista della Bibbia, dice tre cose. La prima è che solo Dio ha creato l’uomo. Nessun altro. La parola “plasmò” traduce il termine ebraico yatsar, che significa “modellare, dare forma, plasmare”. Evoca l’immagine del vasaio che ha in mente una immagine e la realizza. «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte… come argilla mi hai plasmato… Di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto» (Giobbe 10, 8-10); «Sei tu che hai creato i miei reni e mi hai intessuto nel grembo di mia madre… Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi» (Salmo 139, 13-16).
In secondo luogo, Dio soffia il suo alito di vita nell’uomo. Era un corpo umano senza vita, disteso per terra. Dio si china, soffia il suo alito nelle narici dell’uomo, e immette la vita. E l’uomo diventa un nephesh hajjah, un “essere animato, che respira, consapevole di sé, vivente, capace di distinguere il bene dal male e di fare la scelta giusta”. Questo soffio di Dio non solo dà origine all’uomo, ma lo mantiene in vita. Giobbe dichiara: «Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell’Onnipotente mi fa vivere» (Giobbe 33,4), e sarà fedele a Dio «finché ci sarà in me un soffio di vita e l’alito di Dio nelle mie narici» (Giobbe 27,3).
Il vescovo san Gregorio Nazianzeno, dottore e Padre della Chiesa, scrive nei suoi Discorsi (n. 14): «Riconosci l’originale della tua esistenza, del respiro, dell’intelligenza, della sapienza e, ciò che più conta, della conoscenza di Dio, della speranza del Regno dei cieli, dell’onore che condividi con gli angeli, della contemplazione della gloria… Riconosci, inoltre, che sei divenuto figlio di Dio, coerede di Cristo e, per usare un’immagine ardita, sei lo stesso Dio!»
Non siamo solo “polvere”. Ci è stato dato l’alito divino, il soffio dello spirito divino. Dobbiamo scegliere se consentire al soffio di Dio di indicarci la strada da percorrere, o arrogarci il diritto di impossessarcene e crederci come Dio, autore della vita. In questo caso rimarremo vittime della nostra arroganza e dei nostri limiti.
Andando al primo racconto della creazione dell’uomo, ci viene detto: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (Genesi 1,31). Sei è il numero dell’uomo, creato alla fine del sesto giorno. E sei si riferisce all’uomo nel sesto comandamento (secondo Esodo 20,13 e Deuteronomio 5,17): “Non uccidere”. L’affermazione di Dio è diretta. Nessuna incertezza. Nessuna scappatoia. Tutela e difende quell’alito di vita che ha immesso nell’uomo, e che gli appartiene. Il sesto comandamento proibisce l’atto di disfarsi di un altro uomo. È un NO alla cultura della morte, della violenza, della cancellazione. Ed è un SÌ alla cultura della vita, quella propria e quella altrui. Ogni essere vivente è espressione della vita e dell’amore di Dio.
Ma… guardiamoci intorno. Sembra che la vita non abbia più valore. Il potere prevale sulla vita. Anzi, si identifica la propria vita con la possibilità di dominare gli altri. E se l’altro non si lascia dominare, ecco la decisione di distruggerlo, di cancellarlo, di togliergli il soffio vitale di Dio. Prendendo il posto di Dio. E le armi giocano un ruolo importante.
Ma cosa significa avere un’arma in mano? «(Al poligono) mi hanno detto di sdraiarmi a pancia in giù, appoggiare il calcio alla spalla e consumare l’intero caricatore. Ho preso la mira e ho sparato: Bum. Il mondo si è fermato e mi sono sentito maledettamente sveglio come poche volte capita nella vita. Ho percepito vividamente la fisicità del proiettile – che io avevo esploso – uscire dalla canna, bruciare l’aria e colpire il bersaglio per perforarlo, lasciandogli un buco. I “misteriosi” istanti trascorsi da quando avevo premuto il grilletto a quando avevo visto il foro sul bersaglio mi avevano preso a sberle, per poi sbattermi in faccia una realtà ovvia, ma di cui non mi ero mai reso veramente conto: i fucili servono per uccidere! La cruda meccanicità di un fucile rende quest’oggetto assolutamente privo di ipocrisia. Non serve né per difendersi né per attaccare; né per fare la guerra né la pace; né per fare una rapina né per sventarla. E non importa se chi lo usa è un terrorista, un mafioso, un padre di famiglia, un pazzo, un militare o uno delle forze dell’ordine. Chi preme un grilletto è una persona che sta usando una arma per togliere la vita a un’altra persona» (tratto da I Fucili servono per uccidere, sito web: (vedi sito).
Un’altra testimonianza è di Mauro Armanino, missionario della Società delle Missioni Africane, dal 2011 a Niamey, capitale del Niger, con esperienze di guerra. Dice: «Le armi servono per essere usate… Le ho riviste durante l’ultima porzione della guerra civile in Liberia negli anni duemila. Erano, tra l’altro, in mano a bambini che, con tutta la serietà del mondo, controllavano i “check-points” sulle strade… Con armi più grandi e pesanti di loro, avevano il potere di fermare e far tremare gli incauti autisti e passeggeri umanitari delle ONG venute a “salvare” la Liberia. Questi bambini erano un perfetto nessuno, invisibili come la maggior parte dei figli dei poveri. Con in mano un kalashnikov AK-47 erano in grado di tornare ad esistere e di contare e di essere diventati, d’improvviso, grandi e temuti» (vedi sito). Il 10 marzo 2022 ritorna sull’argomento, scrivendo: A che servono le armi (dal sito web: (vedi sito): «Le armi si fabbricano e si vendono per essere usate. Circolano, passano di guerra in guerra, si moltiplicano a dismisura e continuano ad essere trafficate, rubate, vendute, ricomprate e rivendute… Le armi… servono a favorire le industrie belliche nazionali e internazionali, e lo fanno in cambio di vite umane e di sofferenze indicibili. Armi regolari, irregolari, informali, clandestine o perfettamente registrate con tanto di matricola. Poco importa, purché uccidano… Le armi sono l’espressione più evidente della grande menzogna che pretende di creare la pace con la guerra».
Edith Bruck, scrittrice superstite di Auschwitz, in una intervista apparsa il 26 marzo 2022 su Il Riformista, a cura di Umberto De Giovannangeli, discutendo sull’ipotesi che possa esserci una guerra giusta, risponde in maniera decisa: «Mai, mai. Nessuna guerra è giusta. E nessuna guerra è paragonabile a un’altra guerra. Nessun disastro si rimedia con un altro disastro. Ognuno è disastro per conto suo, per ragioni diverse, per politiche diverse, interessi diversi. È molto triste ma è così». E sull’invio di armi per aiutare un paese in conflitto, è sicura per il no: «Perché un’arma porta ad un’altra arma. L’arma porta la morte. Si fornisce pane, si fornisce aiuto, si fornisce tutto. Tutto, meno che le armi. Il mondo è pieno di armi. Ne vogliamo ancora di più? Quando creano armi, le creano per uccidere… Le armi servono per aggredire, per uccidere. Io sono contro qualsiasi arma, anche un coltello».
Uccidere è la soluzione che l’uomo sceglie per risolvere un problema, quando la presenza di un altro essere umano disturba i suoi progetti. Ma, facendo così, l’uomo si allontana dalla vera finalità della sua vita: essere formato a immagine e somiglianza del suo Creatore.
Gesù vuole cambiarci, convertirci. Vuole farci vedere il prossimo in modo diverso, in modo da non arrivare più a desiderare di eliminarlo.
Gesù ha detto ai suoi discepoli: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Luca 6,27-28). Gli apostoli, a loro volta, lo hanno raccomandato ai loro discepoli: «siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili. Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio» (1 Pietro 3,8-9). E san Paolo: «Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite» (Romani 12,14). La radice ebraica di benedire, nella Bibbia, è barakh, vicina a quella del verbo “creare”, bará, un verbo che può essere attribuito solo a Dio. La benedizione è portatrice di vita. Benedicendo, perciò, diventiamo collaboratori di Dio con le nostre parole e le nostre azioni. E, ancora una volta, Dio vede quanto viene fatto, e conferma: «ed ecco era cosa molto buona».
Walter Lobina
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