Al centro del Decalogo, il sesto comandamento (secondo Esodo 20,13 e Deuteronomio 5,17) esplode con la sua esigenza assoluta: “Non uccidere”. E vuol dire, semplicemente: “Non uccidere”.
Può sembrare una indicazione che riguarda il passato; noi siamo una società decisamente civilizzata. Eppure è una società dove si uccide, una società violenta dove l’omicidio sembra diventato la regola. Gli ultimi cento anni sono stati attraversati dalla violenza e dalla crudeltà, tra guerre, campi di concentramento, odio, soppressione della vita. E quando si intravede la pace, ecco un’altra guerra, e poi un’altra, o tante altre in contemporanea, quasi in gara su chi è primo nel distruggere e uccidere.
Il “Non uccidere” della Bibbia appare una utopia, la realtà è un’altra. Anche nel linguaggio. Se facciamo un sondaggio e chiediamo che cosa è la pace, la risposta più comune è “assenza di guerra”. Come dire che ciò che esiste e permane è la guerra, e la pace è assenza di questa. La cattiveria, la brama di potere, il volersi ergere al di sopra degli altri, la sete di dominio, hanno sovvertito la realtà. Che dovrebbe essere la pace, secondo il disegno di Dio; e la guerra dovrebbe essere assenza di pace.
Ogni giorno, seguendo la cronaca, veniamo messi a confronto con l’imperativo divino “Non uccidere”. Nessun ambiente è immune dalla violenza. Si uccide in famiglia, in guerra, nelle contestazioni violente. Si uccide fisicamente con le armi da fuoco, da getto, da taglio, chimiche, batteriologiche, incendiarie, esplosive; ma anche con il veleno, la tortura, la droga, l’aborto, l’eutanasia. Si uccide con la parola, calunniando, diffamando, alterando le notizie sulla realtà. Si uccide con l’inquinamento. Si uccide mettendo le persone in situazioni di vita insostenibili. Si uccide risparmiando sulla sicurezza negli ambienti di lavoro. E si uccide con quelle politiche che ritengono irrinunciabile la produzione e l’uso di armi sempre più sofisticate per ottenere – dicono – la pace. Si arriva all’assurdo di uccidere persino col favore della legge, come avviene nel caso della guerra. Uccidere, alla fine, è sempre questo: ridurre al silenzio chi ci dà fastidio; eliminare chi, con la sua presenza o i suoi richiami, ci impedisce di vivere come ci fa comodo o di realizzare le nostre mire di potenza.
Certo, sembra giusto l’uso della forza per difendere se stessi e gli altri dalle aggressioni, ma lo spargimento di sangue è l’unico metodo possibile per la difesa? Anziché pensare subito all’uso della forza, non sarebbe meglio educare alla pace? Se tutti si rifiutassero di sparare, ci sarebbero ancora le guerre? Il cumulo di denaro che serve per gli armamenti non sarebbe speso meglio per risolvere i problemi di questo mondo: fame, miseria, malattie, eccetera?
Il comandamento si erge a protezione della vita umana e contro ogni tentativo arbitrario e quindi delittuoso di spegnerla. Questa idea diventa sempre più chiara nell’antico Israele. Troviamo scritto nel Targum: «Dio dice a Israele: “popolo mio, non diventare assassino, non associarti a degli assassini, perché i vostri figli non apprendano il loro modo di agire. Perché è l’omicidio che ha portato sulla terra le armi, provocato le guerre e i conflitti…”». Il Talmud amplia il discorso dell’omicidio: «Chiunque imbarazza pubblicamente il suo simile e chiunque umilia il prossimo in pubblico, è come se versasse il suo sangue”; «La maldicenza uccide tre persone: quella che parla, quella che ascolta, e quella di cui si parla». E ancora: «Se Dio ha creato un solo uomo è per insegnarci che chiunque distrugge una sola vita, la Torah lo considera come se egli avesse distrutto il mondo intero». C’è anche una dimensione particolare di assassinio, e riguarda chi emette sentenze rabbiniche senza adeguata preparazione e chi, preparato, si rifiuta di insegnare la Torah: entrambi uccidono, uno attivamente e l’altro passivamente.
Da dove nasce la furia omicida? Dio aveva lasciato questa indicazione: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Levitico 19,2). La volontà di Dio è che noi siamo santi, cioè separati da ciò che è estraneo a Dio. Se siamo in comunione con Dio, è necessario essere come lui. E Dio vuole essere in tutto e in tutti. Invece l’uomo, da quando si è distaccato da Dio, sorgente della vita e dell’amore, ha realizzato una storia di rapporti caratterizzati da diffidenza, odio, violenza, guerra. Ebbene, il “Non uccidere” ci ricorda che nessuno può sentirsi autorizzato a uccidere il fratello. Tanto più che, quando si uccide una persona, non si toglie la vita solo a quella persona: vengono infatti uccisi anche tutti coloro che da quella persona sarebbero nati. Individui che l’omicidio ha impedito che nascessero.
Il rispetto della vita umana deriva direttamente dalla creazione dell’uomo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27). Quando noi danneggiamo o sopprimiamo una vita interferiamo nell’opera di Dio. Ci poniamo come avversari di Dio, distruggendo la sua immagine che è l’uomo. Perciò, se non vogliamo offendere l’immagine di Dio, è necessario non recare alcuna offesa al nostro prossimo.
Il tutto è ribadito all’inizio del Decalogo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Non avrai altri dei di fronte a me» (Esodo 20,2-3). In altri termini, solo Dio, che ha liberato il popolo di Israele dall’Egitto, è il Signore. Pertanto, Dio ci dice: tu non puoi disporre della vita degli altri, perché la vita cade sotto la mia autorità, non sotto la tua. Chi uccide si autonomina Signore della vita e della morte. Uccidere è una sfida alla signoria di Dio. Un attentato alla sua volontà.
L’assassino viene considerato come se danneggiasse Dio stesso, come se lo sfidasse, in quanto uccidendo l’uomo è come se si uccidesse l’immagine stessa di Dio. L’offesa arrecata alla vita è un’offesa fatta a Dio, il Creatore. Afferma Genesi 9,5-6: «Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo … perché a immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo». Se l’uomo è stato creato a immagine di Dio, dobbiamo ritenerlo sacro e santo; e non può essere violato senza che sia violata in lui anche l’immagine di Dio.
Dio non ha mai voluto essere rappresentato con immagini. L’immagine su cui è riflesso il suo volto è una sola: l’uomo. Per questo l’uomo è sacro e intangibile. Ogni uomo, anche il nemico, il malvagio, coloro che non sopporto.
A questo punto diventa evidente che “Non uccidere” implica qualcos’altro. Perché sia vero, oltre a non fare il male, occorre fare il bene. È impegnarsi per una nuova umanità che prenda sul serio la signoria di Dio e l’intoccabilità e la sacralità della vita, di chiunque.
Quando Dio chiede a Caino, «dov’è Abele, tuo fratello?», questi risponde: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Genesi 4,9). Ecco, il “Non uccidere” è prendersi cura di ogni nostro fratello. Vuol dire amare l’altro, essergli vicino, diventargli “prossimo”.
Papa Francesco (Udienza del mercoledì, 17 ottobre 2018) ci esorta: «“Sono forse io il custode di mio fratello?”. Così parlano gli assassini: “non mi riguarda”, “sono fatti tuoi”, e cose simili. Proviamo a rispondere a questa domanda: siamo noi i custodi dei nostri fratelli? Sì che lo siamo! Siamo custodi gli uni degli altri! E questa è la strada della vita, è la strada della non uccisione. […] Quindi, se uccidere significa distruggere, sopprimere, eliminare qualcuno, allora non uccidere vorrà dire curare, valorizzare, includere. E anche perdonare. […] “Non uccidere” è un appello all’amore e alla misericordia, è una chiamata a vivere secondo il Signore Gesù».
Walter Lobina
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