Gesù, quando parla di Dio come “Padre”, adopera una terminologia rivoluzionaria, assolutamente nuova: si rivolge a Dio in modo confidenziale, familiare, chiamandolo “Abbà”, che possiamo rendere come “padre caro”, “papà”.
Nelle preghiere giudaiche del tempo si usa l’invocazione ‘Avinu (Padre nostro) oppure Adonai, il Signore. Chiamarlo “papà” sarebbe sembrato irriverente, inusuale. Ma ora c’è Gesù, che in modo familiare chiama Dio “Abbà”. Il cambiamento introdotto da Gesù è quello di considerare Dio a livello più intimo e di intrattenere con lui una relazione filiale.
Ebbene, pregando il Padre nostro, ci rivolgiamo a Dio così, in modo familiare. Diamo per scontato che sia normale rivolgersi in questo modo a Dio, Signore dell’universo, sovrano assoluto di tutto. Invece, è qualcosa di sorprendente. È quello che il re Davide esprime: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Salmo 8,4-6).
Poter dire “Abbà” è una cosa eccezionale, fuori del normale. È affermare qualcosa di importante. E anche noi possiamo chiamare Dio “Abbà” e parlargli con la piena confidenza di chi è in relazione di amicizia e di amore con lui. È il dono che Gesù ha lasciato ai discepoli: una invocazione carica di fede, ma anche di affetto filiale.
Dicendo di usare questo nome, Gesù prende un aspetto presente nella cultura del tempo. Il Padre rimanda al figlio: colui che gli somiglia nel comportamento, praticando i valori ricevuti. Dire figlio di… significa certamente nato da…, ma soprattutto somigliante a… nel comportamento.
Somigliare a Dio nel comportamento può sembrare una impresa irraggiungibile. Eppure Gesù, poco prima di offrire la preghiera del Padre nostro ai discepoli, dice: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5,48). Quella a cui Gesù si riferisce è la somiglianza al suo amore. L’apostolo Paolo lo afferma con chiarezza: «Dio… ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (Efesini 1,4-5). E aggiunge: «Se siamo figli, siamo anche eredi di Dio» (Romani 8,17).
Dicendo Padre nostro il cristiano allora non è più uno che obbedisce a delle leggi, ma un figlio ed erede che somiglia al Padre, praticando un amore come il suo. E per sapere con quali sentimenti ed emozioni dire Padre nostro, è sufficiente leggere e rileggere la parabola del padre misericordioso, nel Vangelo di Luca (15,11-32). Troveremo un padre che vuole sì che gli assomigliamo, ma che ci accetta così come siamo.
Accogliamo allora l’invito di papa Francesco (Udienza, 16 gennaio 1919) : «Noi continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”».
[“Voi dunque pregate così: Padre nostro”, 10 – continua]
(successivo) (precedente)