Parlare col cuore: Veritatem facientes in caritate La pecora smarrita
“Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita? E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico che Egli si rallegra più per questa che per le novantanove che non si erano smarrite. Allo stesso modo, il Padre vostro che è nei cieli non vuole che uno solo di questi piccoli perisca” (Matteo 18,12-14)
“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Luca 15,4-7).
È la stessa parabola, ma riportata da due evangelisti differenti. Le differenze che si riscontrano arricchiscono ancora di più il messaggio, e ci fanno capire il significato del “parlare col cuore”, del “praticare la verità nella carità”. E ci indicano la “verità” del comportamento di Dio, che si identifica con l’amore.
L’esempio che Gesù porta sembra contro il buon senso, contro ogni logica: nessun pastore lascia incustodito il suo gregge sui monti, per andare a cercare una pecora che si è smarrita e che non è neanche sicuro di trovare. L’evangelista Luca si spinge oltre. Non dice: se una pecora si smarrisce, ma se il pastore ne perde una: è Lui che la perde. La pecora forse non sa neanche di essersi persa; ma nel deserto, se non c’è il pastore, rischia di morire. L’essere trovata o meno diventa perciò questione di vita o di morte. Nel racconto di Luca, il pastore se ne assume la responsabilità. Perché la pecora è pecora e, se si perde, il pastore si sente responsabile.
L’affermazione di Gesù è più che un modo di dire, non vuole che siamo in colpa. Dice: “È colpa mia, non ho fatto abbastanza”. Il comportamento di Gesù, il messaggio che ci vuole lasciare è mettere al primo posto l’amore.
Capita a tutti, prima o poi, di smarrirsi. Ma se là dove io sono smarrito, l’altro mi schiaccia con la verità del mio errore, mi condanna, io sono perduto. Se, invece, là dove sono smarrito, l’altro mi è vicino, sono salvo. Ed essere vicino è parlare col cuore. Praticare una differente verità, che è l’amore per l’altro.
La parabola che Gesù racconta, circolava già in ambiente giudaico, ma con un finale differente: il pastore perdeva una pecora, metteva al sicuro le altre e andava a cercarla; trovatala, le rompeva una zampa, così imparava a non perdersi, e poi la riportava a casa. Il pastore ha tutte le ragioni per rimproverare la pecora, punirla; invece, nel racconto di Gesù, se ne assume la colpa. Va a cercarla, se gli riesce di trovarla (Matteo) – finché non la ritrova (Luca): c’è sotto proprio l’affanno della ricerca. Alla fine, quando la trova, la soccorre e c’è la gioia dell’averla trovata. Tutto questo è parlare col cuore. Gesù vuole farci capire che, agli occhi di Dio, ognuno ha un valore infinito. Per Dio noi valiamo più di Lui, tanto che ha dato la vita per noi.
Nella mente dei discepoli le cose non funzionano così, sono interessati a se stessi, alle norme da seguire, alla verità stabilita; chi non ci sta, peggio per lui; se si allontana, si arrangi. Il pastore presentato da Gesù, invece, ha un rapporto personale così stretto che, quando una pecora è in crisi e si smarrisce, va a cercarla: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3,17). Se vi fosse anche uno solo da salvare, cercherebbe ogni mezzo per rendere possibile questo ritorno.
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