Shomér ma mi-llailah I VOTI RELIGIOSI NELLA CULTURA DELLA COMUNICAZIONE (2)

Il voto di Povertà

Povertà. Una parola che si preferisce evitare, fuori moda. I verbi che si impongono oggi sono: guadagnare, arricchirsi, stare sempre meglio. La ricchezza è uno status symbol. Sinonimo di potenza, dominio, valore, misura di tutte le cose. Giovani e meno giovani hanno, come sogno ricorrente, la ricchezza, specie quella facile. Avere soldi, per potersi permettere tutto. Auto, viaggi, amici, vacanze, benessere… Insomma: la vita. La povertà, certo, esiste. Ma è confinata oltre. Un dramma per chi la vive, una notizia da telegiornale per gli altri.

In un mondo dove tutti cercano o almeno sognano il benessere, quale segno vuole essere fare il voto di povertà? Oppure è solo la formula di un rito, come appartenenza a un Istituto religioso, ma che poi non ha alcuna conseguenza o rilevanza nella vita?

La Bibbia ha in generale un atteggiamento positivo verso la ricchezza. Dio è l’infinitamente ricco. L’amico di Dio gode della benedizione divina, e ha sovrabbondanza di denaro, figli, greggi, prodotti agricoli, prestigio sociale. La povertà e la privazione sono viste come un castigo cui porre rimedio. Per questo, fra gli impegni dell’alleanza, vi era l’obbligo di prendersi cura di ciascuno: nessuno doveva essere nel bisogno e sperimentare la povertà. Era quella anche la dimostrazione che il Dio di Israele era quello vero.

Nonostante gli avvertimenti di Mosè e dei profeti, il cuore dell’uomo non è stato disponibile alla condivisione. Gesù viene a realizzare il disegno di Dio sull’umanità. Al giovane, osservante e ricco di beni, fa notare che nella sua vita, pur buona, manca Dio. Di qui l’esortazione a vendere tutto, darlo ai poveri e seguirlo (Marco 10,17-30). La pienezza di vita e la perfezione si attua nella condivisione. Gesù non condanna i beni materiali, ma l’accumulare, la brama di guadagnare di più e di non avere più tempo per nient’altro e per nessuno. La ricchezza, qualunque sia la sua forma, va usata per cambiare il mondo, per eliminare tutte quelle condizioni di povertà che contraddicono il Regno di Dio.

Al seguito di Gesù, quale significato ha professare il voto di povertà oggi? Nel passato lo si intendeva come privarsi di qualcosa o non possedere nulla. Questo, nel mondo d’oggi, appare privo di senso. Quale beneficio ne avrebbero i poveri? Tanto più che la povertà ha assunto una dimensione ampia, che comprende l’essere emarginati, esclusi, sfruttati, vittime della violenza; in sottosviluppo culturale, tecnologico e sanitario; sino alla perdita del senso di Dio.

In realtà, il voto di povertà non consiste in ciò che i religiosi possiedono, ma in ciò che fanno con quello che possiedono: creare futuro con il messaggio che annunciano e con l’operatività della loro azione. È questo il modo per dire ai poveri che Dio li ama.

Professando il voto di povertà, il religioso dice a tutti: Dio è il bene assoluto, riempie la mia vita, in lui trovo la ragion d’essere di ogni cosa. “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”, direbbe san Paolo (Galati 2,20). E quale è stato l’agire di Cristo? “Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinzi 8,9). Il voto di povertà è impegno perché il mondo torni a vivere il sogno di Dio per l’umanità. È impegno per la vita. Ecco allora il grido e la testimonianza di fronte a una ricchezza che diventa peccato, perché frutto di ingiustizia umana. Come hanno fatto, nel loro tempo, Francesco e Chiara d’Assisi.

“Annunciare la buona novella ai poveri” (Luca 4,18) è stata la missione di Gesù. Il voto di povertà assume la stessa preoccupazione per i poveri, i sofferenti, gli indifesi del nostro mondo. È vedere la propria vita dalla loro prospettiva. Lasciarsi coinvolgere e commuovere, condividere ciò che abbiamo: beni, interessi, titoli, conoscenze, luoghi di incontro, pubblicazioni, social network, per occuparsi dei poveri, parlare per i poveri, influenzare i ricchi nell’interesse dei poveri. Affinché nessuno si trovi nel bisogno.

Il voto di povertà è quella forza che fa dire, come Pietro allo storpio, “non possiedo né oro né argento”, ma nel nome del Signore la tua vita può cambiare; posso camminare con te, e insieme a te scoprire la bellezza della tua vocazione nel mondo.

Shomér ma mi-llailah? Sentinella, quanto resta della notte?” (Isaia 21,6-12), gridano i poveri a chi ha fatto il voto di povertà. Lui sa vedere e annunciare la vicinanza di un Dio benevolo. Un dono che il religioso rende più efficace con il voto di castità.

di Christian Ricci

pubblicato nella rivista SE VUOI

(vai al sito)