Siamo tutti abituati a distinguere il cielo dalla terra, come luoghi geografici. Il credente va anche oltre: esiste un cielo, luogo di Dio, ed esiste una terra che è l’abitazione degli uomini. Diciamo, infatti: Padre nostro che sei nei cieli; Gloria a Dio nell’alto dei cieli; i santi del paradiso sono in cielo; i nostri cari defunti sono in cielo.
Per la Bibbia il cielo è la dimora di Dio, il suo regno, da dove egli si prende cura degli uomini. “Che sei nei cieli” esprime, dunque, la trascendenza e la invisibilità di Dio: Dio è altro rispetto a ogni altra cosa; non possiamo impadronirci di lui, prenderlo a nostro piacimento. Ma questo Dio è anche vicino: «Il Signore, tuo Dio, cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà» (Deuteronomio 31,6), dice Mosè al popolo; Gesù risorto conferma questo stare continuativo: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matteo 28,20).
Il credente non cessa di meravigliarsi che Colui che abita nei cieli si sia fatto così vicino al suo popolo: «Quale altro popolo ha gli dei così vicini, come il Signore nostro Dio è vicino a noi?» (Deuteronomio 4,7). L’esperienza più profonda dell’uomo biblico è lo stupore di essere amato da Dio. Si dovrebbe provare lo stesso stupore ogni volta che si recita: “Padre nostro che sei nei cieli”. Nostro e nei cieli: qui sta la meraviglia.
Il cielo è anche un modo per alludere a Dio, per non nominare il suo nome sacro. Lo vediamo anche nelle parabole: “Il regno dei cieli”, per dire: “Il regno di Dio”. Dire “Padre nostro che sei nei cieli” significa perciò: Padre nostro che sei Dio. È una affermazione forte, rivoluzionaria, specifica dell’identità cristiana. La comunità cristiana non riconosce a nessuno il diritto di dominarla né tantomeno di condizionarla o guidarla. L’unico al quale riconosce questa autorità è il Padre, nessun altro al suo posto. Tra l’altro, il Padre non dirige gli uomini emanando precetti da osservare, ma comunicando ai suoi figli la capacità di Amare.
Ecco perché Gesù nello stesso Vangelo di Matteo (23,9) dirà: «non chiamate (= non riconoscete) nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo». Gesù è molto chiaro: l’unico che va chiamato Padre e al quale permettiamo di avere autorità su di noi è il Padre che è nei cieli. Riguardo agli altri padri, che vogliono imporci degli obblighi dicendo che è la volontà di Dio su di noi, ci avvisa: l’unico Padre, l’unico che ha autorità, è quello del cielo.
Ma Gesù aggiunge un dono inaspettato. Estende il cielo, luogo proprio di Dio, anche agli uomini che accolgono le Beatitudini nella loro vita: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5,3).
Rivolgersi pertanto a Dio con il nome di “Padre che sei nei cieli”, significa confessare la sua divinità, ma anche la nostra appartenenza ad essa, racchiusa nel nome di Padre nostro.
[“Voi dunque pregate così: Padre nostro”, 12 – continua]
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