Su Vita Pastorale di aprile, due articoli ricordano un anniversario: A 60 anni dalla Pacem in terris: l’attualità dell’enciclica di papa Giovanni XXIII.
Marco Roncalli, in L’ultimo dono di Roncalli, riporta innanzitutto un brano di Papa Francesco: «“Abbiamo bisogno di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori, come profeticamente esortava san Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris: La vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Come sessant’anni fa, anche ora viviamo un’ora buia nella quale l’umanità teme un’escalation bellica che va frenata quanto prima anche a livello comunicativo…”. Sono parole tratte dal Messaggio per la 57ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del prossimo 21 maggio, dove papa Francesco si mostra atterrito “nell’ascoltare con quanta facilità vengono pronunciate parole che invocano la distruzione di popoli e territori” e che “purtroppo si tramutano spesso in azioni belliche di efferata violenza”».
«Papa Francesco – scrive ancora Roncalli – di recente è tornato a citare “l’ultimo dono” di papa Roncalli, Pacem in terris, sorta di testamento spirituale che Giovanni XXIII, anziano e malato, aveva firmato in diretta televisiva il 9 aprile 1963, ma datato due giorni dopo – 11 aprile, Giovedì santo – indirizzandolo all’episcopato, al clero, ai fedeli, nonché a tutti gli uomini di buona volontà, ma diretto soprattutto al “suo” Concilio che stava preparando una seconda sessione.
Scopo dell’enciclica era – e rimane – quello di richiamare tutti all’impegno permanente per la pace e la fratellanza tra popoli, alla comunione morale e spirituale, al lavoro per il bene comune universale e il rafforzamento di un’autorità politica mondiale. A ben vedere qualcosa di cui abbiamo bisogno ancora oggi, nei rapporti con la comunità internazionale, nell’affrontare temi etici o politici. […]
L’enciclica, inoltre, affermò che dopo l’avvento del nucleare pensare di risolvere le controversie col ricorso alle armi è irrazionale («alienum a ratione»), non senza indicare prospettive concernenti, più direttamente, la costruzione della pace. Intesa come esito di un retto ordine sociale, non essendo la pace solo «assenza di guerra» («Lo sviluppo è il nuovo nome della pace», affermerà papa Paolo VI nella Populorum progressio). E da conseguire esigendo la prevenzione e il disarmo delle armi e degli spiriti mediante l’educazione, lavorando per la difesa dello Stato di diritto».
Giovanni XXIII, conclude Marco Roncalli, è «un papa che con la sua Magna Charta sulla pace, ha ancora qualcosa da dirci. A maggior ragione dopo che, a trent’anni da quella in Bosnia-Erzegovina, la guerra è tornata in Europa, e in tanti Paesi – Etiopia, Somalia, Afghanistan, Congo, Yemen, Siria, Sud Sudan ed altri… – dove i vecchi conflitti non cessano o si preannunciano nuove crisi umanitarie».
Tonio Dell’Olio, in Un’apertura inedita, riferendosi alla Pacem in terris, sottolinea: «Quell’enciclica ha aiutato il mondo (e non solo la Chiesa) a capire meglio il Vangelo. A cominciare dalle prime e inconsuete parole di indirizzo che, per la prima volta in un’enciclica, si rivolgevano “agli uomini di buona volontà” e non soltanto ai credenti. Anche qui la scelta è illuminata dalla semplicità disarmante del “Papa buono” che volle destinare il suo messaggio sulla pace non solo ai tradizionali indirizzi confessionali di un’enciclica. Una riflessione sulla pace o ha una dimensione universale o non è. Un’apertura inedita. […] La Pacem in terris inaugura un metodo e un’attitudine in cui la Chiesa si pone in ascolto attento del mondo con “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”. Sono grida di dolore e percorsi, talvolta carsici, di speranza. È questo il luogo nel quale Giovanni XXIII inaugura la formula dei “segni dei tempi”. La storia viene considerata, ha qualcosa da dire. Non ci si trova dinanzi a una umanità o a una pace eterea e sterilizzata, racchiusa nello scrigno nobile dei princìpi astratti. Vi è, piuttosto, una realtà di coscienza dei diritti in marcia, diritti dei lavoratori, diritti delle donne, diritti dei popoli in via di sviluppo alla propria ascesa, diritti politici delle minoranze, diritti economici e culturali. […]
La stessa decisione di porre mano a un’enciclica sulla pace nasce da quella scuola che aveva scelto di mediare sul precipizio abissale della crisi dei missili a Cuba. […] Per dirla con le intuizioni chiave del pontificato di Francesco, qui coesistono tanto la fraternità universale col riconoscimento dell’apporto di ogni persona col proprio patrimonio di cultura, fede e scienza, quanto la “Chiesa in uscita” che, sul modello del Dio biblico, si fa carico del dolore dell’umanità fino a incarnarsi. […]
La situazione mondiale attuale – con il tragico catalogo dei conflitti armati in corso e la guerra in Ucraina col suo drammatico presagio di estendersi e involversi in senso nucleare – dimostra che il sogno di Giovanni XXIII deve trovare i cristiani e gli uomini di buona volontà in prima fila a pretendere quella riforma indispensabile per la salvaguardia della pace. I credenti, poi, dovrebbero trarre dall’enciclica la forza profetica di affinare la riflessione e la pratica per una presenza nonviolenta con la quale la Pacem in terris ci ha provocato. L’anniversario che ci vede immersi in uno scenario internazionale che mai avremmo immaginato, non chiede una celebrazione quanto un supplemento coerente di impegno. Francesco appare come l’erede fedele di quella visione del mondo, ora tocca ai credenti dare concretezza al sogno della pace sulla terra.